Qual è il punto di vista del Corso sul suicidio?

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Mario Zanoletti
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Qual è il punto di vista del Corso sul suicidio?

Messaggio da Mario Zanoletti » 27 febbraio 2021, 19:10

Propongo alcune riflessioni riguardanti il suicidio, un aspetto che tocca moltissime persone nel mondo.
La prima parte è il punto di vista del Corso In Miracoli, la seconda parte è una discussione tratta da un dibattito pubblico con Krishnamurti.....
Valuta i punti di vista e confrontali con la tua visione su questo tema.
La lettura potrebbe risultare lunga (si lo so che i social propon
gono letture di frazioni di secondo, ma qui....il tempo non esiste), il tuo interesse come Insegnante di Dio va oltre il tempo di lettura...vero?


Qual è il punto di vista del Corso sul suicidio?

D: Le quattro domande che seguono sono tutte rivolte al tema del suicidio, quindi verrà data loro risposta congiuntamente:
i. Potete per favore commentare il punto di vista del Corso sul suicidio?
ii. Qual è il “giusto” modo di affrontare il suicidio, visto con gli occhi di Un corso in miracoli?
iii. Mio nonno si è suicidato. La morte, la nostra separazione da Dio – è tutto un’illusione. Così il suicidio è sbagliato? O è lo stato della mente – il sentirsi separati da Dio – mentre si commette il suicidio ad essere sbagliato? Cosa accade se una persona commette suicidio? La persona diventa automaticamente una con Dio quando non è nell’illusione del mondo?
iv. Mia moglie si è suicidata di recente. Io e lei eravamo studenti di Un corso in miracol Talvolta mi domando: se tutto questo è un’illusione, qual è lo scopo del nostro restare in vita? Perché dobbiamo combattere in questa vita che comunque non è parte del mondo reale? Qual è lo scopo di una qualunque di queste cose?

R: Dalla prospettiva del Corso, ogni morte è in realtà un suicidio.
Perché, come spiega Gesù, “Nessuno può morire a meno che non scelga la morte” (T.19.IV.1:4), e di nuovo in seguito “E nessuno muore senza il proprio consenso. Non accade nulla che non rappresenti il tuo desiderio e non viene omesso nulla di ciò che scegli” (L.pI.152.1:4,5).

Ma il Corso chiarisce anche che la morte è un pensiero nella mente che non ha nulla a che fare col corpo (es. L.pI.163.1:1; L.pI.167.2:1,2,3).
Perché lo stesso ego ha la sua origine in un pensiero di morte folle ma illusorio – il credere che possiamo attaccare Dio per strapparGli un sé individuale separato. Tale pensiero rappresenta non solo un assassinio – la morte di Dio – ma anche un suicidio – la morte del nostro vero Sé come Cristo. E così qualsiasi cosa provenga, nel mondo di corpi e comportamento, da questo folle pensiero iniziale non può essere più reale o più sano.
Siccome il Corso ci chiede sempre di focalizzarci sul contenuto e sullo scopo piuttosto che sulla forma e l’apparenza, ogni morte nel mondo che venga da un pensiero dell’ego verrà considerata esattamente sotto la stessa luce. Lo scopo dell’ego in ogni morte è quello di provare che la separazione è reale e che, alla fine, Dio trionfa su di noi riprendendosi da noi la vita che noi Gli abbiamo rubato. Noi possiamo resistere fino a che alla fine soccomberemo a forze esterne più potenti, o possiamo rassegnarci al nostro destino e cedere alla morte con le nostre stesse mani. Quindi non importa in quale forma la morte possa giungere, perché il contenuto è sempre lo stesso – la nostra vita sparuta e dolorosa è nostra solo per un tempo limitato prima di doverla inevitabilmente perdere.

Per contro, guardando con Gesù o con lo Spirito Santo vedremmo che ogni morte, compreso il suicidio, non è diversa nel contenuto, ma solo nella forma, da qualsiasi altra scelta che facciamo qui nel mondo, scelta che è basata sulla nostra percezione di noi stessi come separati e soli, addolorati, vulnerabili e vittime. E tuttavia sapremmo che quella percezione è falsa, poiché basata su una falsa premessa in merito a noi stessi: che siamo questo corpo, intrappolato in un mondo duro e crudele, non fatto da noi, disperatamente in lotta contro stranezze insormontabili per trovare un po’ di pace e di felicità in una situazione senza speranza sulla quale non abbiamo alcun controllo
Secondo la prospettiva prevalente nel mondo, il suicidio ha un marchio ed un giudizio morale negativo ad esso associato, ma ciò è semplicemente parte della difesa dell’ego che insiste sul fatto che sia la vita come sé separato, sia la morte di quel sé, siano reali. Dalla prospettiva del Corso il pensiero che sta dietro il suicidio, se basato sull’ego [Gesù chiarisce anche che la morte può essere scelta con la guida dello Spirito Santo (M.12.5; Cdp.3.II)] è un errore, uno sbaglio, e questo è quanto.
Non è un peccato, né implica alcuna conseguenza negativa diversa da qualsiasi altra decisione che facciamo con l’ego come nostro insegnante – tutte rinforzano la colpa che inconsciamente vogliamo mantenere viva nella nostra mente per dimostrare che la separazione è reale. E così il suicidio non è un errore maggiore di quello che abbiamo fatto nello scegliere di nascere nel mondo. In entrambi i casi stiamo cercando di affrontare il problema della colpa nella nostra mente focalizzandoci sul mondo apparentemente esterno e sul nostro corpo, garantendo di non trovare una soluzione. Stiamo cercando di risolvere il problema della separazione nel mondo, come se il problema fosse il mondo, piuttosto che la mente dove è sepolto il vero problema – il folle pensiero di separazione.
E così, sia che commettiamo suicidio sia che moriamo in qualunque altro modo, credendo che la morte sia reale rimarremo intrappolati nella credenza nella separazione che ci siamo auto imposti. La morte non ci libera dal sistema di pensiero dell’ego, né dal mondo che ne è la difesa. Solo guardando al sistema di pensiero dell’ego con la presenza senza giudizio di Gesù o dello Spirito Santo al nostro fianco e decidendo una volta per tutte che l’idea di separazione non ha valore per noi, possiamo ritornare all’esperienza della nostra unità con Dio. Perché il mondo non ci sta privando di nulla – solo la nostra scelta di essere separati lo fa.
Anche se questo mondo è un’illusione, come lo sono le nostre vite individuali qui – una vita che sentiamo essere racchiusa tra il momento della nascita e quello della morte – noi non lo crediamo. Se ci credessimo e sapessimo veramente che lo scopo del mondo è stato un attacco a Dio e pertanto al nostro Sé, allora naturalmente non penseremmo mai a noi stessi all’essere nei corpi. Ma il fatto che tutti noi viviamo in questo modo – respirando, mangiando, bevendo, divertendoci, ecc. – dimostra che mentre intellettualmente potremmo credere a ciò che Un corso in miracoli ci dice, di certo questa non è la nostra esperienza.

Pertanto lo scopo che lo Spirito Santo nostro essere qui, una volta che siamo nati, è di far sì che noi impariamo le sue lezioni di perdono, compresa la lezione ultima che la morte è irreale. Il mondo allora diventa una classe nella quale impariamo felicemente ciò che Egli ci insegna. Il voler lasciare il mondo rinforza semplicemente la sua realtà per noi. Dopo tutto, chi vorrebbe lasciare un luogo se per prima cosa non lo credesse reale e spiacevole? Ecco perché Gesù ci dice, nel Testo: “C’è il rischio di pensare che la morte sia pace” (T.27.VII.10:2).

La vera pace non viene dal lasciare il mondo fisico, ma solo tramite la pratica del perdono che disfa la colpa nella mente che è la sola causa di dolore e sofferenza, insieme al credere nella realtà della morte. E così, man mano che siamo disposti a farlo, al ritmo che scegliamo, facciamo i piccoli passi di perdono che ci riporteranno al glorioso Sé eterno che non potremmo mai distruggere, il Sé che è rimasto la nostra Identità nonostante le nostre folli digressioni nell’illusione della morte.






Il suicidio (Jiddu Krishnamurti)



Da: KRISHNAMURTI, L'uomo alla svolta, Ubaldini editore, Roma 1971 (trad. di Orietta Guaita Alliata e Anna Guaita), pp. 49-56. (Per gentile concessione della casa editrice Astrolabio-Ubaldini che si ringrazia sentitamente).


INTERROGANTE (I): Mi piacerebbe parlare del suicidio, non perche' nella mia vita ci siano delle crisi, neanche perche' abbia qualche motivo di pensare al suicidio, ma perche' il problema sorge necessariamente quando si ha davanti agli occhi la tragedia della vecchiaia: la tragedia della disgregazione fisica, il crollo del corpo, e lo scomparire di una vera vita nelle persone a cui cio' accade. C'e' qualche motivo per prolungare la vita quando si raggiunge questo stato, c'e' qualche motivo per prolungare quel che e' ormai un vestigio di vita? Non sarebbe piuttosto un atto di intelligenza riconoscere che a un certo punto l'utilita' della vita termina?
KRISHNAMURTI (K): Se e' l'intelligenza che vi spinge a morire, allora quella stessa intelligenza avrebbe dovuto impedirvi di fare invecchiare prematuramente il vostro corpo.

I: Ma non arriva il momento in cui neanche l'intelligenza della mente può impedire al corpo di deteriorarsi?
K: Dovremo analizzare il problema molto profondamente. Molte cose vi sono implicate, non è così? Il deteriorarsi del corpo, dell'organismo, la senilità della mente, la totale incapacità che porta con sé resistenza. Abusiamo continuamente del nostro corpo per abitudine, il gusto del mangiare, la trascuratezza. Il piacere del mangiare e il godimento che se ne trae controllano e determinano l'attività dell'organismo. Quando succede questo, viene distrutta la naturale intelligenza del corpo. Nelle riviste si ammirano grandi varietà di cibi, dai colori bellissimi, fatti per soddisfare il senso del gusto, non per dare benefici al corpo. Così dalla gioventù in poi indebolite e distruggete quello che doveva essere uno strumento di alta sensibilità, attivo, funzionante come una macchina perfetta.

E questo per una parte, perché poi c'è la mente che per venti, trenta o ottanta anni ha vissuto continuamente lottando e resistendo. Essa conosce solamente contraddizioni e conflitti, sia emotivi che intellettuali. Tutte le forme di conflitto non solo sono delle distorsioni ma con se' portano la distruzione. Ecco dunque alcuni dei fattori intimi ed esterni del deterioramento: l'eterna attività egocentrica con i suoi processi isolatori.
Certo, c'è il logoramento naturale del corpo oltre a quello anormale. Il corpo perde le sue capacità e i suoi ricordi, e gradualmente subentra la senilità. Voi mi chiedete se a questo punto una persona potrebbe commettere il suicidio, ingoiare una pillola che la uccida? Chi fa la domanda: una persona anziana, oppure quelli che guardano la vecchiaia con dispiacere, disperazione e paura del proprio logoramento?

I: Be', naturalmente dal mio punto di vista la domanda è motivata dal dolore di vedere la vecchiaia di altre persone, dato che presumibilmente in me non e' ancora incominciata. Ma non c'è anche un atto dell'intelligenza che, guardando avanti a un possibile sfacelo del corpo, si chiede se non sia inutile continuare a vivere quando l'organismo non è più capace di vita intelligente?

K: I dottori permetteranno l'eutanasia? I dottori, o i governi permetteranno che il paziente si suicidi?

I: Senz'altro questo è un problema legale, sociologico, e in certe persone anche morale, ma non stavamo parlando di questo, non e' vero? Ci stavamo chiedendo se il singolo individuo ha il diritto di por fine alla sua vita, e non se la società glielo permetterebbe.

K: State chiedendo se si ha il diritto di decidere della propria vita, non solamente quando si è vecchi o si sia consapevoli dell'avvicinarsi della vecchiaia, ma se è moralmente giusto commettere il suicidio in qualsiasi momento?

I: Esiterei a parlare di moralità a questo proposito, perché la moralità è un fatto condizionato. Tentavo di porre la domanda a puro livello di intelligenza. Fortunatamente per il momento non devo affrontare il problema personalmente, così posso analizzarlo, credo, in modo assolutamente spassionato; ma come semplice esercitazione dell'intelligenza umana, qual è la risposta?

K: State dicendo, un uomo intelligente può commettere il suicidio? E' così?

I: Oppure, il suicidio può essere l'azione di un uomo intelligente, in determinate circostanze?

K: E' la stessa cosa. Dopo tutto si giunge al suicidio sia da una assoluta disperazione, causata da profonda frustrazione, sia da una paura insolubile, sia dalla consapevolezza della mancanza di significato di un certo tipo di vita.

I: Vorrei interrompervi, per dire che è generalmente così, ma io cerco di porre la domanda al di fuori da qualsiasi motivazione. Quando si giunge alla disperazione allora è implicato un motivo terribile ed è difficile separare l'emozione dall'intelligenza; io sto cercando di fermarmi allo stadio della pura intelligenza, senza emozione.

K: Ci state chiedendo se l'Intelligenza permette qualsiasi forma di suicidio? No, naturalmente.

I: Perché no?

K: In realtà bisogna capire la parola Intelligenza. E' l'intelligenza che permette che il corpo si deteriori per l'abitudine, la debolezza, la soddisfazione del gusto, del piacere, e così via? Questa è intelligenza, azione dell'intelligenza?

I: No; ma se si arriva a un punto della vita in cui s'è fatto già uso poco intelligente del corpo senza che questo abbia ancora avuto effetto su di esso, non si può tornare indietro e rivivere la propria vita.

K: Quindi, diventate consapevole della natura distruttiva del tipo di vita che conduciamo e smettete di vivere in quel modo immediatamente, e non in una data futura. L'atto immediato di fronte al pericolo è un atto di giudizio, di intelligenza; e il rimandare, come la ricerca del piacere, indica mancanza di intelligenza.

I: Sì, capisco.
K: Ma non capite anche qualcosa di fattuale e vero, che il processo isolatore del pensiero con la sua attività egocentrica è una forma di suicidio? L'isolamento è suicidio, sia esso l'isolamento di una nazione o di una organizzazione religiosa, o di una famiglia o di una comunità. Siete già preso in quella trappola che in ultima analisi vi condurrà al suicidio.

I: Parlate dell'individuo o del gruppo?
K: Di entrambi. Siete imprigionato dall'esempio.

I: Che cosa porta in ultima analisi al suicidio? Ma se non tutti si suicidano!
K: Esattamente, ma il desiderio di fuggire c'è sempre - di fuggire dai fatti che ci stanno davanti, da "ciò che è"; questa fuga è una forma di suicidio.

I: Questo, credo, è il punto essenziale di quel che cerco di chiedervi, perché da quanto avete appena detto sembrerebbe che il suicidio sia una fuga. E naturalmente, per novantanove casi su cento lo è, ma non ci potrebbe essere -questa è la mia domanda- non ci potrebbe essere un suicidio che non sia una forma di fuga, che non sia fuggire da quel che voi chiamate "ciò che è", ma che al contrario sia una risposta dell'intelligenza a "ciò che è"? Si può affermare che molte forme di nevrosi sono forme di suicidio; quel che cerco di chiedere è se il suicidio può non essere una reazione nevrotica. E non potrebbe essere la reazione consistente nell'affrontare un fatto, la reazione dell'intelligenza umana che agisce in una condizione umana insostenibile?

K: Quando usate la parola "intelligenza" e "condizione insostenibile" cadete in contraddizione. Le due cose sono in contraddizione.

I: Avete detto che se si sta davanti a un precipizio, o a un serpente velenoso che sta per attaccarvi, l'intelligenza suggerisce una azione, che e' una azione di fuga.
K: E' un atto di fuga o un atto di intelligenza?

I: Non possono essere la stessa cosa talvolta? Se una macchina viene verso di me sulla strada e io la sfuggo…
K: Questo è un atto di intelligenza.

I: Ma è anche un atto di fuga dalla macchina.
K: Ma quello è l'atto di intelligenza.

I: Esattamente. Quindi quando nella vita quel che ci sta davanti e' insostenibile e mortale non c'e' che un corollario?
K: Allora ve ne allontanante, come vi allontanate dal precipizio: scostatevene.

I: In quel caso lo scostarsi implica il suicidio.
K: No, il suicidio è un atto di stupidità.

I: Perché?
K: Ve lo sto spiegando.

I: Volete dire che l'atto di suicidarsi è assolutamente ed inevitabilmente una risposta nevrotica alla vita?
K: Naturalmente. E' un atto di stupidità; è un atto che significa naturalmente che siete giunto a un punto tale di isolamento che non avete vie d'uscita.

I: Ma allo scopo di questa discussione tento di supporre che non vi sono vie d'uscita da una situazione difficile, che non si agisca per sfuggire alla sofferenza, che non ci si scosti dalla realtà.
K: Nella vita ci sono delle occasioni, dei rapporti, delle situazioni da cui non si può sfuggire?

I: Sì, naturalmente, ce ne sono molte.
K: Molte? Ma perché insistete a dire che il suicidio è l'unica via d'uscita?

I: Se si è mortalmente ammalati non vi è alcuna speranza di fuga.
K: State attento adesso, state attento a quello che stiamo dicendo. "Se io avessi un cancro, che mi stesse uccidendo, e il dottore dicesse: "Bene, caro amico, ve lo dovete tenere", cosa dovrei fare: suicidarmi?

I: Forse.
K: Stiamo discutendo a livello teoretico. Se proprio io avessi un cancro mortale, allora dovrei decidere, dovrei considerare il da farsi. Non sarebbe una questione a livello teoretico. In quella situazione dovrei trovare la cosa più intelligente da fare.

I: Volete dire che non dovrei porre questa domanda a livello teoretico, ma solamente se mi trovassi realmente in quella situazione?
K: Proprio così. Allora vi comportereste secondo il vostro condizionamento, la vostra intelligenza, il vostro modo di vivere. Se la vostra vita si è basata sulla fuga e l'evasione, su un sistema nevrotico, allora naturalmente assumereste un atteggiamento e un comportamento nevrotico. Ma se avete condotto una vita veramente intelligente, nell'assoluto significato della parola, allora quell'intelligenza agirebbe quando ci fosse un cancro mortale. Allora potrei rassegnarmi, potrei voler vivere i pochi mesi o anni che mi restassero.

I: Ma potreste anche non farlo.
K: Potrei anche non farlo; ma non diciamo che il suicidio è inevitabile.

I: Non l'ho mai detto; chiedevo se in alcune circostanze difficili, come un cancro mortale, il suicidio potesse essere una risposta intelligente alla situazione.
K: Vedete, c'è qualcosa di straordinario in questo fatto; la vita vi ha dato grande felicità, straordinaria bellezza, grandi benefici, e voi avete accettato tutto ciò. Ed avete egualmente accettato l'infelicità, e questo fa parte dell'intelligenza: ora avete un cancro mortale e dite: "Non posso più sopportarlo, devo mettere fine alla mia vita". Perché non vi muovete con lui, vivete con lui, cercate di scoprire qualcosa su di lui mentre continuate a vivere?

I: In altre parole non esiste una risposta alla domanda finche' non ci si trovi nella situazione adatta.
K: Naturalmente. Ma vedete è proprio per questo che è così importante, io penso, fronteggiare il fatto, fronteggiare il "ciò che è", di attimo in attimo, senza starci a teorizzare su. Se qualcuno è ammalato, ammalato di cancro senza speranza, o è diventato completamente vecchio: qual e' la cosa piu' intelligente da fare, non per un semplice osservatore come me, ma per il medico, la moglie o la figlia?

I: In realtà non si può rispondere, perché il problema riguarda un altro essere umano.
K: E' proprio così, è proprio quello che volevo dire.

I: E non si ha il diritto, almeno così mi sembra, di decidere della vita o della morte di un altro essere umano.
K: Ma lo facciamo. Tutte le tirannie lo fanno. E lo fa la tradizione; la tradizione che insegna che si deve vivere in questo modo e non in quell'altro.

I: E sta diventando tradizione anche portare la vita della gente al di là del punto in cui la natura crollerebbe. La gente viene mantenuta viva grazie ai progressi della medicina; beh, è difficile dare una definizione di cosa sia una condizione naturale, ma sembra una condizione innaturale continuare a vivere per così tanto tempo, come tanta gente fa oggi. Ma questo è un altro problema.

K: Sì, è un problema assolutamente diverso. La vera domanda è: l'intelligenza permetterà il suicidio, anche quando i medici hanno stabilito che c'è una malattia incurabile? Si potrebbe forse suggerire ad un altro cosa fare in questo caso. Ma bisogna che l'uomo che ha la malattia incurabile agisca secondo la propria intelligenza. Se è proprio intelligente -il che vuol dire che nella sua vita c'è stato amore, sollecitudine, sensibilità e gentilezza- allora una simile persona, quando si presenterà la situazione, si comporterà secondo quell'intelligenza che ha agito anche nel passato.

I: Allora tutta questa discussione è priva di significato perché questo è quanto accadrà in ogni caso; perché la gente agirà inevitabilmente secondo quel che è successo nel passato. Potrebbero sia farsi saltare le cervella, sia sedersi e soffrire fino alla morte, o accettare una via di mezzo.
K: No, non è stata priva di significato. Sentite, abbiamo scoperto molte cose: prima di tutto che vivere intelligentemente è la cosa più importante. Vivere una vita che sia sommamente intelligente richiede una straordinaria prontezza della mente e del corpo, e abbiamo distrutto la prontezza del corpo con un modo di vivere innaturale. Stiamo anche distruggendo la mente, il cervello, con il conflitto, la continua oppressione, la continua esplosione di violenze. Quindi, se si vive una vita che sia la negazione di tutto ciò, allora quella vita, quell'intelligenza, quando si troverà a confronto con una malattia incurabile agirà al momento opportuno.

I: Mi accorgo che vi ho posto una domanda sul suicidio e ho avuto una risposta su come vivere nel modo giusto.
K: E' l'unica risposta. Un uomo che si butta giù da un ponte non sta a chiedere: "Mi suiciderei?". Lo sta facendo; è finito. Mentre noi, seduti in una casa tranquilla o in un laboratorio stiamo a chiederci se un uomo si suiciderebbe o no; tutto ciò non ha significato.

I: Quindi è una domanda che non si può fare.
K: No, si deve fare: se uno vuole suicidarsi o no. E' una domanda da fare, ma bisogna scoprire cosa c'è dietro, che cosa spinge colui che fa la domanda, che cosa gli fa desiderare di suicidarsi. Conosciamo un uomo che non si è mai suicidato, sebbene continui a minacciare di farlo, perché è assolutamente pigro. Non vuole far niente, vuole che tutti lo sopportino; un uomo simile si è già suicidato. Colui che è ostinato, sospettoso, avido di potere e di prestigio, intimamente si è già suicidato. Vive dentro un muro di immagini. Perciò ogni uomo che vive con una immagine di se stesso, del suo ambiente, della sua ecologia, del suo potere politico o della sua religione, è già finito.

I: Mi sembra che quello che state dicendo significa che ogni vita che non sia vissuta direttamente…
K: Direttamente ed intelligentemente.

I: Al di fuori delle ombre, delle immagini, del condizionamento, del pensiero….. A meno che non si viva in quel modo, la vita di ciascuno e' una specie di esistenza di tono minore.
K: Sì, naturalmente. Guardate la maggior parte della gente; vivono dentro un muro: il muro del loro sapere, dei loro desideri, dei loro impulsi ambiziosi. Sono già in una situazione di nevrosi e la nevrosi da' loro una certa protezione, che è la protezione del suicidio.

I: La protezione del suicidio!
K: Prendiamo un cantante, per esempio; per lui la più grande preoccupazione è la sua voce, e quando questa viene a mancare egli è pronto per il suicidio. Quello che è veramente emozionante e vero è cercare un metodo di vita che sia altamente sensibile e sommamente intelligente; cosa impossibile se c'è paura, ansietà, avidità, invidia, creazione di immagini o il vivere in isolamento religioso. L'isolamento è quello che tutte le religioni hanno suggerito; il credente così è definitivamente sull'orlo del suicidio. Avendo egli posto tutta la sua fiducia in una credenza, quando quella viene messa in dubbio ha paura ed è pronto ad abbracciare un'altra fede, un'altra immagine, a commettere un altro suicidio religioso.
Perciò, può un uomo vivere senza alcuna immagine, senza alcun modello, senza alcuna sensazione del tempo? Io non intendo che si debba vivere in tal modo da non occuparci di quello che succederà domani o che è successo ieri. Quella non è vita. C'è anche chi dice: "Cogliete il presente e vivetelo meglio che potete"; anche questo è un atto di disperazione. In verità non ci si dovrebbe chiedere se sia giusto o no suicidarsi; ci si dovrebbe chiedere cos'è che genera quello stato della mente in cui non ci sono più speranze; per quanto la parola speranza non sia giusta in quanto implica un futuro. Piuttosto bisognerebbe chiedere come può la vita essere priva di tempo? Vivere senza tempo vuol dire veramente avere questo senso di grande amore, perché l'amore non è del tempo, l'amore non è qualcosa che è stato o che sarà: scoprirlo e viverci è il vero problema. Domandarsi se bisogna o no commettere suicidio è tipico di un uomo già parzialmente morto. La speranza è la più terribile delle cose. Non fu Dante a dire: "Abbandonate la speranza quando entrate nell'Inferno"? * Per lui il paradiso era la speranza, è una cosa orribile.

I: Sì, la speranza è il proprio inferno.


* "Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate", "Inferno", canto Terzo. (N.d.T.)


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L'uomo alla svolta contiene le conversazioni svoltesi a Malibu intorno al 1969 fra Krishnamurti e Alain Naude', un pianista sudafricano, docente all'universita' di Pretoria, che, ascoltato Krishnamurti a Saanen (Svizzera) nell'estate 1962, lo aveva seguito, facendogli poi da segretario dal 1964 al 1969. Il testo in inglese comparve nel 1970 col titolo "The Urgency of Change". (Informazioni attinte da: MARY LUTYENS, La vita e la morte di Krishnamurti; Ubaldini editore, Roma 1971, pp. 135-143).

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Re: Qual è il punto di vista del Corso sul suicidio?

Messaggio da fortimaira@gmail.com » 9 marzo 2021, 10:48

Grazie per questa intensa lettura. E' un tema che mi sta toccando molto in questi mesi. Un'amica ha avuto una persona cara che si è tolta la vita e ne abbiamo parlato a lungo. Dentro di me sono sorte molte domande e l'incapacità di comprendere quale stato d'animo si celi dietro a una scelta. Poi un giorno, mentre ricevevo un massaggio in un momento in cui avevo appena assistito a un episodio di prevaricazione, mi sono trovata a pronunciare: "Mi sto chiedendo cosa sto qui a fare!" E' stato un impulso non filtrato dal normale controllo ed è stato un momento di verità in cui ho visto quello che si muove dentro di me al di là della mente che gestisce la mia quotidianità. Posta la domanda, una domanda scomoda, ho iniziato a trovare la risposta. Che è lì, sospesa alla domanda. Si mostra ogni giorno attraverso le persone che incrociano la mia strada e so che si estenderà in ogni mio respiro finchè non riuscirò ad espandere il "qui" e a declinare nel modo giusto il "fare".
Per quanto riguarda il "cosa", lo scopo, sento che si sta definendo sempre di più man mano che tolgo le croste delle mie finzioni. E anche la speranza, se ripulita dalle incrostazioni linguistiche e religiose, in fondo resta solo SPA- che in sanscrito significa "Tendere alla meta e superare un limite" (google docet). Nell'azione di superare un limite, il limite non esiste più, il salto è in qualche modo eterno.
Come per altre parole del Corso in fondo credo che anche per la speranza dovremmo contemplare la possibilità che esista una Speranza che va oltre l'illusione. Credo possa essere declinata come la consapevolezza di quale sia lo Scopo che ci unisce oltre l'illusione.

Da Illusionelandia per oggi è tutto, vi ringrazio e vi abbraccio!

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